Energia pulita dagli scarti lattiero-caseari

Al Distas dell’Università Cattolica si studia come rendere sempre più efficiente la produzione di biogas dal siero di latte

Potremmo far partire tutto da due semplici constatazioni: attualmente, sul nostro pianeta una cosa sta diminuendo e due stanno aumentando. La prima, quella che cala, è la disponibilità di carburanti fossili; le altre due, quelle che crescono, sono l’inquinamento globale e gli scarti ad alto contenuto organico provenienti da svariati processi produttivi. Aggiungiamo che questo materiale organico possiede ancora un carico importante di energia. Ora uniamo questi “puntini” e vediamo che se riuscissimo a estrarre energia da questi residui organici limiteremmo l’uso di carburanti fossili, favoriremmo il rallentamento dell’inquinamento globale, e ridurremmo gli scarti.
Per una volta, il condizionale non è d’obbligo, perché questi processi di estrazione di energia da materiali organici, già avvengono da tempo ma, come tutti i processi, hanno necessità di continui perfezionamenti e miglioramenti, attraverso attività di ricerca scientifica e innovazione tecnologica. È in questa direzione che sta andando il Distas – Dipartimento di scienze e tecnologie alimentari per una filiera agro-alimentare sostenibile – dell’Università Cattolica di Piacenza e Cremona.
«Come per altre nostre ricerche, anche in questo caso siamo nell’ambito dell’economia circolare – sottolinea il professor Lorenzo Morelli, Ordinario di microbiologia e direttore del Distas. Con questi processi andiamo a valorizzare materiali che prima erano destinati a scarto, traendone tra l’altro energia pulita». 
 
Ma cerchiamo di capire meglio. Una delle modalità per trasformare in energia la sostanza organica si chiama “digestione anaerobica” ed è praticata da batteri che vivono in assenza di ossigeno. In sintesi, questi microrganismi si alimentano di scarti attraverso un processo fermentativo che libera un gas e lascia un materiale chiamato “digestato”. Ricapitoliamo il processo dal punto di vista energetico: gli scarti organici possiedono ancora molta energia, una piccola parte della quale viene utilizzata da quei batteri anaerobici che, “digerendo” questi prodotti, rendono disponibili da un lato il digestato, che può essere proficuamente utilizzato come fertilizzante naturale, e dall’altro lato quello che viene chiamato “biogas”, una miscela nella quale prevalgono metano e anidride carbonica. E il biogas, in generale, viene utilizzato per la produzione di calore e di energia elettrica, un processo chiamato co-generazione. Ma può anche essere purificato per far salire la concentrazione del metano a oltre il 95%, e ottenere così quello che viene chiamato biometano, che ha le stesse caratteristiche del gas naturale e può dunque essere immesso nella rete di distribuzione. 

Sono parecchi i sottoprodotti che possono essere fermentati per la produzione di biogas. Tra questi, molto promettenti sono gli scarti delle diverse lavorazioni alimentari, il cui mancato sfruttamento comporterebbe un doppio costo: quello diretto dello smaltimento e quello indiretto della perdita di energia chimica che ancora possono offrire. «Dei vari sottoprodotti dell’industria agrifood, qui al Distas ci stiamo concentrando su quelli delle filiere lattiero-casearie – ci spiega la ricercatrice Alessandra Fontana – e in particolare sul siero di latte permeato, ovvero ultrafiltrato per sottrarvi le proteine che vengono destinate ad altri usi».

D’altro canto, la quantità di siero prodotta ogni anno nelle diverse filiere casearie è notevole, e se non meglio sfruttato questo sottoprodotto rappresenta un costo per il suo smaltimento. Tra i vari modi per trattarlo, la digestione anaerobica è quello che appare più sostenibile dal punto di vista sia ambientale che economico. Si tratta di un processo biologico complesso – ci spiegano al Distas – che coinvolge diversi consorzi microbici che operano la scomposizione della materia organica e che avviene in quattro fasi: idrolisi, acidogenesi, acetogenesi e metanogenesi. Nel siero, peraltro, sono anche presenti fattori che possono ostacolare la digestione dei batteri, ad esempio un alto contenuto in sodio, il pH particolarmente acido e un basso tasso di alcalinità.
«Per superare questa sfide tecniche, al Distas abbiamo recentemente testato diverse configurazioni dei digestori e differenti strategie di co-digestione – sottolinea Fontana».

In particolare, il lavoro è stato concentrato sulla selezione dei diversi microrganismi coinvolti nelle fermentazioni. Da questo punto di vista un fattore determinante è la temperatura alla quale avviene la digestione anaerobica: se media favorirà i batteri mesofili, se più elevata quelli termofili. In questo ambito, esistono diversi studi sulle condizioni mesofile; meno su quelle termofile che, anche se risultano più sensibili agli inibitori, presentano diversi vantaggi nella produzione di biogas, come una maggiore velocità di digestione e una concentrazione finale di metano più elevata.
Oltre a ciò, un altro parametro cruciale per l’efficienza di questi processi è il consorzio microbico coinvolto: comprendere le differenze e le dinamiche della comunità di batteri presenti può portare a diversi gradi di ottimizzazione, soprattutto in termini di rese più elevate in metano.
Un modo per raggiungere questo obiettivo è tramite la metagenomica, un approccio “molecolare” che si basa sul Dna batterico del consorzio microbico presente nei digestori. Il Dna rappresenta “l’impronta digitale” dei microrganismi e ci consente di dare loro un nome e una funzione. La metagenomica, infatti, consente di identificare sia quali batteri sono coinvolti nel processo, sia quali geni possiedono e quindi quali funzioni possono svolgere nella digestione anaerobica. Per arrivare ad avere queste informazioni bisogna analizzare le sequenze di Dna con opportuni metodi bioinformatici. Investigare in che rapporti sono distribuite le popolazioni microbiche nel digestore ci consente di capire in modo più approfondito eventuali problematiche sull’instabilità del processo e sulle rese finali di biogas. La ricerca del futuro anche in ambito agroalimentare sarà sempre più basata sull’integrazione di analisi cosiddette “in silico” (elaborazione di big data tramite computer) e di “wet lab” (analisi di laboratorio), permettendo una visione approfondita e complementare di processi biologici complessi come quello della digestione anaerobica.

Stefano Boccoli