Questione tecnica: crescita cellulare
Le ricerche sulla carne coltivata sono ancora in fase di sviluppo – spiega il professor Ajmone Marsan – e, sebbene ci siano stati progressi significativi, permangono numerosi ostacoli.
Uno dei principali riguarda l’uso di siero fetale bovino (FCS-FBS), antibiotici e ormoni. Sebbene gli ormoni siano utilizzati in alcuni processi, la legislazione attuale non ne consente l’impiego, il che impone la ricerca di alternative che non lascino residui nel prodotto finale. Inoltre, l’uso di antibiotici è problematico nei bioreattori, dove il rischio di contaminazione è elevato, con conseguenti perdite economiche significative.
Un altro problema riguarda la proliferazione delle cellule muscolari. Tradizionalmente consideriamo la carne come un muscolo, ma le cellule muscolari sono caratterizzate dalla presenza di più nuclei. Alla nascita, sia negli esseri umani sia negli animali, il numero di cellule muscolari è fissato; ciò che cambia nel tempo è il loro volume, non il numero.
Sebbene esistano cellule satelliti in grado di moltiplicarsi, una volta differenziate, esse non possono più proliferare. Le cellule coltivate, se non sono immortalizzate, si dividono molto lentamente, limitando la proliferazione. Di conseguenza, è necessario ripristinare periodicamente il campione iniziale, e la crescita della massa muscolare risulta lenta e costosa.
Una possibile soluzione consiste nell’utilizzo di cellule immortalizzate, come quelle derivate da linee tumorali (ad esempio C2C12 e CHO), sebbene non sia chiaro se saranno accettate dai futuri consumatori di carne coltivata, poiché provengono da animali come topi e criceti.
Un’altra strada potrebbe essere la modifica genetica delle cellule per consentire loro di proliferare senza ricorrere a linee tumorali.
Tuttavia – prosegue Ajmone Marsan – esistono anche sfide legate alla crescita delle cellule staminali, che devono differenziarsi in fibre muscolari. Queste fibre sono molto diverse dalla carne vera e propria e, per crescere correttamente, le cellule necessitano di supporti solidi e tridimensionali. Tali supporti, detti scaffold, devono essere edibili e possono derivare da strutture vegetali o da funghi, capaci di mantenere la struttura cellulare durante il processo di crescita e successiva decellularizzazione.
Questione nutrizionale: amminoacidi essenziali
Un altro aspetto fondamentale riguarda l’utilizzo di amminoacidi essenziali per la crescita delle cellule coltivate.
Secondo il docente della Cattolica, i ruminanti, ad esempio, sono in grado di vivere nutrendosi di sostanze non direttamente utilizzabili dall’uomo, come mais o urea, e rappresentano un esempio di come gli animali possano contribuire alla produzione di cibo per l’uomo.
Viceversa, le cellule in coltura hanno bisogno di una corretta fornitura di amminoacidi essenziali, che devono essere prodotti attraverso metodi alternativi, come la fermentazione. Sebbene queste soluzioni siano promettenti, non risolvono del tutto la questione della sostenibilità nella produzione di carne coltivata.
C’è quindi un tema nutrizionale: per produrre carne coltivata è necessario fornire alle cellule amminoacidi essenziali e altri nutrienti che, paradossalmente, farebbero molto bene anche a noi. Questo porta a chiederci se abbia più senso consumare direttamente questi nutrienti, piuttosto che impiegarli per far crescere cellule in laboratorio.
L’approccio One Health
Professor Ajmone Marsan, ci parla spesso dell’approccio One Health nella produzione alimentare, che integra salute umana, animale e ambientale. Nel caso della carne coltivata, però, il ruolo degli animali viene profondamente trasformato. Quali potrebbero essere le implicazioni di questo cambiamento?
Nel contesto della carne coltivata, uno degli aspetti più radicali è proprio la possibile scomparsa degli animali zootecnici. Questo avrebbe conseguenze profonde sull’approccio One Health, che si fonda sull’interconnessione tra salute umana, animale e ambientale. Da un lato, la riduzione della presenza animale potrebbe effettivamente portare a una diminuzione del rischio di zoonosi, cioè di quelle malattie che si trasmettono dagli animali all’uomo. Tuttavia, dall’altro, verrebbero meno tutti quei servizi ecosistemici legati proprio alla presenza degli animali. In molte aree marginali, ad esempio, gli animali svolgono un ruolo fondamentale nel mantenimento del territorio. Il pascolo ben gestito favorisce la biodiversità vegetale e contribuisce a mantenere gli equilibri ecologici. Senza di essi, alcuni ambienti, come i prati di montagna, rischierebbero l’abbandono e la riconquista da parte dei boschi, con un impatto anche sul paesaggio culturale e identitario. Inoltre, in contesti come l’Australia o gli Stati Uniti, la presenza di animali che si nutrono di foraggi secchi aiuta a prevenire il rischio di incendi boschivi, riducendo la quantità di materiale infiammabile. Gli animali fanno parte del paesaggio, contribuiscono alla sua forma e alla sua funzionalità. Chi va in montagna si aspetta di vedere i pascoli: sono parte del nostro immaginario collettivo.
Quindi sì, il cambiamento potrebbe portare benefici in termini sanitari, ma comporterebbe anche la perdita di equilibri ecologici e culturali importanti. È una trasformazione da valutare con molta attenzione, perché coinvolge dimensioni profonde e interconnesse della nostra relazione con l’ambiente.