Carne coltivata e sostenibilità: un equilibrio ancora non facile

Con questa terza parte completiamo la serie di approfondimenti sul tema della carne coltivata, grazie a conversazioni con il professor Paolo Ajmone Marsan – Ordinario di Genetica all’Università Cattolica del Sacro Cuore. E concludiamo, non a caso, con uno degli aspetti più cruciali dell’intera questione: la sostenibilità.

Professore, considerando questo concetto nelle sue diverse accezioni – ambientale, sociale, economica e nutrizionale – come vede la prospettiva di produrre carne o latte attraverso processi complessi che mettono gli animali in secondo piano?
«Il fatto che gli animali passino in secondo piano non sarebbe strettamente, in senso tecnico, un problema, a patto che si riesca davvero a ottenere un prodotto valido, con un impatto ambientale ridotto. Ma c’è dell’altro da considerare: questa transizione comporterebbe anche una perdita del legame con il territorio e con le tradizioni agricole. Dall’altro lato, un prodotto biotecnologico potrebbe aprire la strada a nuove possibilità e a un’offerta alimentare più diversificata. Sul piano ambientale ed economico, la sostenibilità va valutata attentamente, soprattutto se si lavora con cellule non immortalizzate, perché i costi e l’impatto energetico potrebbero essere molto elevati. Per produrre carne coltivata in quantità sufficienti a sostituire l’allevamento tradizionale, sarebbe necessario replicare la produzione di un numero enorme di animali oggi allevati, all’interno di laboratori e bioreattori: un’impresa titanica».

Ci aiuti a focalizzare meglio questo punto. 
«In futuro si prevede l’utilizzo di energie rinnovabili, ma al momento le stime sugli impatti ambientali della carne coltivata sono contrastanti. Alcuni studi sembrano favorire questa tecnologia, altri la sfavoriscono rispetto alla produzione di carne tradizionale, ma si basano su cellule immortalizzate, che non potranno essere utilizzate per la produzione finale. Sebbene al momento siamo lontani da una soluzione completa, la creazione di un sistema capace di produrre massa cellulare su larga scala potrebbe portare a risparmi significativi in termini di consumo di acqua e suolo e alla riduzione del rischio di zoonosi. Inoltre, questo sistema potrebbe diminuire la necessità di macellare animali, portando a una minore intensificazione degli allevamenti. Tuttavia, come dicevo, la produzione su larga scala di carne coltivata e la sua efficienza economica restano sfide molto lontane da vincere.

E per quanto riguarda l’aspetto sociale della sostenibilità? 
Ci sono famiglie che vivono di allevamento, con microeconomie locali che funzionano bene così come sono. Cambiare radicalmente questo sistema avrebbe impatti sociali enormi. Intorno alla zootecnia ruotano intere filiere: mangimi, vaccini, edilizia rurale, attrezzature, tecnologie. Eliminare tutto questo significherebbe trasformare profondamente il settore agricolo e le economie locali. Non vedo realisticamente una trasformazione immediata o “vendibile domani”, nonostante gli importanti investimenti già presenti nel settore.

In conclusione, quale futuro vede per la carne coltivata?
È probabile che la carne coltivata trovi inizialmente spazio in un mercato di nicchia, rivolto soprattutto a consumatori attenti a tematiche etiche e ambientali e disposti a spendere di più. Tuttavia, non è realistico pensare che possa sostituire completamente la carne tradizionale nel breve periodo.
È interessante notare che, dal 1960, il numero di animali allevati negli Stati Uniti e in Italia è diminuito, ma la produzione complessiva di carne è aumentata grazie a tecniche più efficienti. Ciò dimostra che è possibile produrre di più con meno risorse. E d’altro canto, anche come richiesto anche dalla FAO, è necessario orientarsi verso un modello che combini produzione e sostenibilità, anche riducendo il numero di animali allevati.
Nei paesi in via di sviluppo, però, gli animali rappresentano ancora una risorsa fondamentale per la sopravvivenza di molte famiglie. In questi contesti, la riduzione del consumo di carne risulta molto più complessa. Al contrario, nei paesi sviluppati – come in Europa – una diminuzione dei consumi è già in corso, ma il suo impatto globale rimane limitato.
Con l’aumento della ricchezza in alcuni paesi e il contestuale impoverimento di altre aree, insieme a problemi geopolitici e a conflitti, è probabile che i paesi in via di sviluppo continuino a crescere economicamente e demograficamente, modificando progressivamente anche le loro abitudini alimentari. Questo potrà avere un impatto significativo sulle risorse disponibili. Tuttavia, se guardiamo ai consumi globali in termini relativi, il nostro contributo rimane ancora contenuto.